Eh, bella domanda.

Ci ho messo più o meno sei anni e un career strategist pagato profumatamente per capire come dare senso a quell’accozzaglia di esperienze, e spiegare perché proprio quel ruolo da animatore in un villaggio Valtur nel lontano 2015 mi abbia reso il professionista organizzato e team player che sono oggi.

Mi sono posto questo problema, a dirla tutta, l’ennesima volta che cercavo di capire cosa fare della mia vita lavorativa. Ero infatti stato capace di virare da un lavoro molto tecnico, che potremmo tranquillamente riassumere in “metti questi numeri in questo foglio Excel e prega che abbiano davvero senso per qualcuno”, a un ruolo più strategico, di quelli in cui devi fingere di avere una visione a lungo termine, chiuderti in un’aula meeting e non uscirne finché non hai dispensato il tuo essere visionario ai pochi privilegiati ed eletti che si trovavano nella stanza.

In realtà quello che volevo all’epoca era solo liberarmi di un lavoro noioso e cercare stimoli altrove. E, perché no, magari trovare anche qualcosa che mi facesse sentire un po’ meno inutile. Che poi è quello che fa davvero la differenza. Perché, diciamolo, ho visto gente che fa cose totalmente inutili per tutti, ma si racconta di tenere in equilibrio le sorti dell’azienda tipo “OH MIO DIO HO L’AGENDA PIENA, SALTO DA UN MEETING ALL’ALTRO, LE MIE GIORNATE SONO DA PAZZIH”. La verità? Non frega un cazzo a nessuno di quello che fai quindi scendi dal piedistallo e fatti una vita, sfigato di merda.

Dicevo.

Pago questo career strategist, che mi dice che devo fare uno storytelling.

…Eh? E che è? Mi chiedo io.

Mi spiega che devo trovare un filo conduttore tra la mia esperienza come organizzatore di tornei di ping pong (di cui sopra), il lavoretto stagionale come cameriere in quel posto marcio che mi pagava 25 euro per otto ore con quel bastardo del proprietario che si divideva le mance con i camerieri, il mio hobby come chitarrista in una band di fattoni persi (e finiti) nei centri sociali dove ci pagavano in birre e visibilità, e la mia laurea, totalmente inutile, che mi ha solo parcheggiato cinque anni a studiare cose che non mi sarebbero mai servite nella vita, se non a vantarmi con mia moglie di sapere termini strani quando facciamo insieme la Settimana Enigmistica.

Beh, facile no? …Per niente.

Però una cosa mi confortava: in quell’insieme “eclettico” di esperienze, un tratto mio, che mi piace e che forse qualche recruiter disperato può anche lontanamente interpretare come valore, veniva fuori. E forse non solo uno.

Veniva fuori la mia curiosità. La persona che ero e che sono, ovvero uno che il da fare se lo trova SEMPRE, soprattutto se lasciato ad annoiarsi in una città di provincia che vive solo tre mesi l’anno di turismo, e che d’inverno o ti droghi, o emigri (tranquilli, sono emigrato).

E infatti, passata quella fase del “oddio, penseranno che non so cosa voglio dalla vita” (eh cari miei, se voi lo sapete fatemi un fischio), sono riuscito non solo a normalizzare nella mia testa il fatto che quasi nessuno ha un CV lineare, ma anche a dire: meno male che non ce l’ho.

In questa newsletter prendo spesso in prestito questa metafora, e chi segue Zerocalcare capirà… ma la frase “strappare lungo i bordi” racchiude perfettamente quell’azione mortale (a mio avviso) di stare lì, fare lo stretto indispensabile, seguire il tracciato che magari qualcun altro ha disegnato per noi, e che ci limitiamo semplicemente a seguire fino alla pensione. Sporcandoci poco, o nulla.

Solo a pensarci mi viene voglia di ammazzarmi con una overdose di Xanax.

Per carità, capisco che non è così per tutti. C’è chi nello stare strenuamente nella propria comfort zone trova sicurezza, stabilità e (pensano loro) rimedio all’ansia.

Se ho tutto sotto controllo sono più tranquillo, è proprio una cosa psicologicahhh”…

Eh no, Freud dei miei maroni, non funziona così. L’ansia ti viene di fronte a situazioni che non conosci. E se vivi evitando di spostare anche solo una sedia da sotto un tavolo, la vita, che per definizione è movimento e imprevisti, ti farà venire l’ansia a ogni suo minimo scossone.

Comunque: chi ha un percorso dritto spesso ha solo avuto paura di deviare, change my mind.

Io credo invece che il valore risieda proprio nel cambiamento. Nell’onestà intellettuale di dire “questa cosa non fa per me” o “adesso cerco altro”. Perché oh, magari non diventeremo mai chi vogliamo essere, ma almeno avremo una storia interessante da raccontare davanti a una birra.

Oggi credo che ogni salto sia in realtà in linea con la persona che lo compie, e vada mostrato come tappa coerente con ciò che si è diventati. E quindi sì, se per quell’anno in cui ti sei sentito perso ti sei rifugiato a Bali in un eco-retreat a camminare scalzo sull’erba perché ti ricordava quando da piccolo passavi le estati a Capalbio, fallo. Raccontalo. Poi starà al recruiter cogliere il valore di una persona che ha saputo prendersi il suo tempo e investire nella sua salute mentale.

Anche perché, oh, LinkedIn è pieno di post tipo “Come quella volta in cui papino ha dimenticato di caricarmi i soldi sulla Postepay mi ha insegnato 5 cose sul business B2B”. Figurati se non sapete raccontarla bene voi, che avete avuto il coraggio di perdervi, vivere e ritrovarvi per dei valori veri.

Ecco.

Allora andate e raccontatevi. Prendete il buono.

Non giustificatevi, perché non eravate “insicuri”, ma avevate solo voglia di sperimentare e di mettere alla prova il bagaglio che vi portate dietro, per dargli una nuova forma e acquisire nuovi strumenti per farcela.

E, probabilmente, ce l’avete già fatta. Davvero.

In bocca al lupo.

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